E’ difficile ricostruire nel dettaglio lo svolgimento dei riti funebri Romani poichè, se è vero che i resti materiali in alcuni contesti archeologici abbondano, è pure vero che gli autori antichi rivolgono la loro attenzione quasi esclusivamente ai riti in onore dei personaggi pubblici, che per una serie di ovvi motivi avvenivano secondo delle modalità diverse da quelle previste per le persone comuni.
E’ possibile, tuttavia, ricostruire un quadro abbastanza completo se ci affidiamo per i particolari agli indizi che le iscrizioni delle singole tombe ci forniscono, e se facciamo riferimento agli autori per capire in generale la percezione che i Romani avevano della morte.
Anche se la norma giuridica stabiliva solo una condizione come d’obbligo nel dare sepoltura ai defunti, cioè che le necropoli fossero costruite fuori dalla cinta muraria, è pure vero che i Romani consideravano imprescindibile il fatto in sè di seppellire i defunti.
Non si trattava di una dovere che nasceva dal legame affettivo fra il defunto e chi rimaneva in vita; era piuttosto un fatto che aveva a che fare con la superstizione in un certo senso.
La morte era per i romani un momento di interruzione del normale andamento delle cose.
Ed era per questo necessario stabilire un nuovo equilibrio. Il nuovo equilibrio si raggiungeva appunto dando la sepoltura al defunto. Non importava quale fosse il rito scelto per la deposizione, che si trattasse di cremazione od inumazione, il dato essenziale era la creazione del luogo, il ripristino del contatto con la terra. Era come se i Romani cercassero per i loro defunti una dimora alternativa, fino al disfacimento totale del corpo ed alla conclusione del viaggio verso l’Ade. Questa dimora doveva in un certo senso contenere gli spiriti ed era un’assoluta necessità. Se il defunto veniva privato di una giusta sepoltura, la sua anima avrebbe vagato per sempre senza pace, ostile alla progenie, e funestando ogni attività e l’intera esistenza dei suoi discendenti.
La morte, dunque, se non gestita adeguatamente attraverso la sepoltura poteva “contaminare” i vivi. Questo spiega perchè coloro che per mestiere erano in contatto con i defunti erano costretti a rispettare delle limitazioni nella frequentazione degli spazi pubblici; o perchè la famiglia del defunto attraversasse un periodo stabilito di lutto, fisso e della durata di 9 giorni, che prevedeva oltre ai rituali funebri la sospensione delle normali attività pubbliche. Per quanto riguarda invece i riti in senso più stretto, va detto che la sepoltura era solo una parte di essi e che grande parte degli atti compiuti durante il periodo di cordoglio e poi a seguire prevedevano il consumo di cibo.
Pensare al cibo come parte integrante di un rito funebre è una cosa sicuramente insolita, ma forse possiamo capirla meglio se ragioniamo sul fatto che la morte fosse per i Romani una sorta di periodo di transizione, un lungo viaggio che si concludeva nell’Ade. In questo periodo era necessario onorare i morti, propiziarseli, confortarli con cibarie per garantire loro l’immortalità in questo ciclo naturale. Ed allora il cibo veniva condiviso con il defunto. Ciò avveniva in due modi: attraverso il banchetto o con le libagioni.
Un primo banchetto funebre aveva normalmente luogo in prossimità della tomba il giorno in cui il defunto finalmente la raggiungeva e poi un secondo concludeva il periodo di lutto. Così in alcune tombe (ad esempio nella Necropoli di Porto) sono state rinvenute strutture permanenti che fanno pensare all’organizzazione del pasto comune: forni o pozzi all’interno di alcune tombe; banchi in muratura che servivano come triclini esterni davanti la porta di alcune altre. E se in certe sepolture tutto ciò è assente, possiamo tranquillamente pensare ad arredi mobili: cioè banchi, tavole, mense e tanto altro che le fonti dettagliatamente ci riferiscono fosse necessario per i rituali.
Le Libagioni avvenivano in modo diverso.Il termine definisce propriamente una cerimonia durante la quale si effettua lo spargimento di un liquido alimentare, o di un’essenza per terra o su particolari oggetti. Nel caso delle libagioni i liquidi potevano consistere in acqua, vino, miele, latte , olio o perfino il sangue delle vittime sacrificate. Potevano essere versate in onore di un singolo defunto, ed allora dovevano raggiungere i suoi resti; oppure essere offerte in generale ai Mani di tutti i defunti sepolti nella tomba. In questo caso era sufficiente che il liquido bagnasse la terra della sepoltura. Perché ciò avvenisse, negli angoli delle tombe venivano interrati dei manufatti che dovevano servire da tubo o condotta che convogliasse i liquidi offerti direttamente nel terreno sotto il livello del pavimento. Nei casi più semplici si trattava di coppi infilati gli uni negli altri o di anfore private del fondo ; nelle soluzioni più elaborate si trattava di tavole di marmo, mensae, con iscrizioni funebri e caratteristici fori che garantivano il passaggio dei liquidi.
Dunque nelle celebrazioni in onore dei defunti, che fossero feste collettive (parentalia, feralia) , o commemorazioni private, organizzate in occasioni particolari, il cibo svolgeva un ruolo fondamentale.
Ma vogliamo concludere questo post citando delle feste in particolare, sicuramente suggestive e dalle atmosfere singolari: i Lemuria. La festa si celebrava in Maggio e consisteva in un rito antichissimo, istituito, secondo le fonti, niente meno che da Romolo.
Durante i Lemuria, il pater familias gettava alle sue spalle delle fave nere per nove volte accompagnando il gesto con complesse formule rituali. Scopo del rito era quello di esorcizzare i Lemures o Larvae, fantasmi vendicativi tormentati ed imprigionati in un limbo senza fine, poichè morti in modo violento.
Insomma, che consideriate l’Aldilà come un viaggio verso un’esistenza nuova o un mondo popolato da anime senza pace, sappiate che i Romani avevano il “rito giusto” per tutto e che quasi sempre il cibo è la soluzione!