Volendo parlare di bevande nell’antica Roma, ovviamente non si può prescindere dal vino. Il vino è uno dei prodotti italiani di cui andiamo più fieri, ma non è sempre stato così.
C’è stato un periodo in cui, addirittura, gli stranieri che assaporavano il vino romano si facevano beffe della qualità del prodotto. Sappiamo ad esempio, che l’ambasciatore di Pirro, Cinea, che arrivò a Roma nel 279 a.C per intraprendere importanti negoziati, si lamentava del sapore eccessivamente aspro ed acido del prodotto locale. Purtroppo bisogna ammettere che ne aveva tutte le ragioni, per seri e fondati motivi. Innanzi tutto c’è da dire che all’alba della storia di Roma, cioè quando i Romani si cibavano perlopiù di derivati del latte e vegetali, il vino veniva consumato, e quindi prodotto, in modo molto limitato. I Romani conoscevano la vite, come pianta selvatica o semiselvatica, ma la tecnica della vinificazione era ancora alquanto grezza.
Fu solo in seguito al contatto con i Greci che impararono a selezionare meglio le piante, che fecero acclimatare quelle selezionate per dare un vino migliore, e che cominciarono a padroneggiare meglio il metodo per produrlo e conservarlo. Fatta questa necessaria premessa c’è pure da ammettere che una volta che impararono a gestire meglio la fermentazione dell’uva, comunque il risultato si presentò ben lontano da quello che otteniamo oggi dalle nostre produzioni.
Ed allora la domanda sorge spontanea: ma che tipo di vino producevano i Romani? Sappiamo che al tempo dei Romani esisteva un vino bianco, candidum, ed un vino rosso, vinum atrum, dunque “nero” in latino; che poteva essere semisecco, austerum, o medio, mesum. Poi, che fosse bianco o rosso, il vino romano era in generale molto acido, pesante ed amaro, nonché molto molto alcolico, da 16 a 18 gradi. In più c’è da considerare il fatto che i Romani non conoscevano la fermentazione in tini o barili, pratica che i Galli, invece, già seguivano, e che il vino lasciato in grossi contenitori interrati- dolia– finiva spesso con il diventare rancido, pastoso e sciropposo.
Era necessario allora correggere i difetti del vino, soprattutto di quello delle qualità più instabili e meno pregiate. E i Romani procedevano in modi diversi. Innanzi tutto sappiamo da diversi autori , fra questi Columella e Plinio, che il vino veniva trattato con l’acqua di mare. Una pratica che riguardò prima tutti i vini, poi soltanto quelli più scadenti; oppure sempre Columella suggeriva di tagliare il vino più buono con la feccia di uno recente. Ma la cosa, più stupefacente è che il vino poteva essere addirittura affumicato. Certo, questo trattamento in particolare lasciava un aroma insolito ed un retrogusto di fumo. Marziale cita questo procedimento in relazione al vino di Marsiglia. Quindi, niente solfiti alla maniera moderna, ma metodi di correzione dell’acidità insoliti ed inaspettati. Non meno bizzarre erano le tecniche per migliorare l’odore della bevanda: Catone parla di terracotte spalmate di pece o di complessi decotti di erbe da filtrare ed aggiungere al succo d’uva. Cose da brividi per i “puristi” del vino.
È pure vero che, in generale, il vino puro non si beveva, ma il succo d’uva era solo uno di tanti ingredienti. Ma vediamo il procedimento.
Prima di tutto il succo d’uva si attingeva dal dolium con delle anfore e si filtrava mescendolo in dei crateri, in cui veniva miscelato con l’acqua. Per filtrare il succo lo si faceva passare attraverso un filtro profumato di olio di mirto, o ricoperto di farina di Orzo, oppure riempito di un trito diverso a seconda della “ricetta”. A volte si usava un battuto di sedano, a volte un trito di mandorle. Una volta filtrato il succo si mescolava, all’acqua. La proporzione era variabile: fino a tre parti di acqua e due di succo d’uva.
Questo permetteva ai Romani di mitigare l’acidità del vino e ridurne il tasso alcolico, dando possibilità a chi lo degustava di berne molto senza essere sopraffatto dalle conseguenze di un’ubriachezza spiacevole e molesta. Inoltre il vino poteva essere aromatizzato con il miele e con le spezie, perfino con il pepe nel caso del famoso piperatum e “profumato” con erbe, legni odorosi ed oli vegetali. C’erano vini mielati alla pigna, al sambuco e al cipresso e i più raffinati erano al profumo di rosa, violetta o anice.
Il vino poteva essere anche fruttato, come il Vinum conditum, vino cotto con alloro, datteri e pepe.
Ma aldilà della “ricetta” si può dire che fosse la vigna di provenienza a fare la differenza, un po’ come nel caso dei nostri prodotti DOP o DOC. Sappiamo che erano molto apprezzati il vino di Falerno ed il massico, entrambi campani, il cecubo dal Golfo di Gaeta, l’albano ed il sabino del Lazio, poi il vino di Sorrento. Il vino di Sezze era molto amato dall’Imperatore Augusto; Tiberio preferiva il “nobile aceto di Verona”; il vino di Aquileia (pucinum) faceva impazzire l’imperatrice Livia; e viene pure citato da Marziale al settimo posto di un’ideale top-ten il trifolinum di Capua. Volendo invece citare i vini di qualità peggiore, il più scadente in assoluto era la lora che si otteneva facendo macerare le vinacce spremute nell’acqua e che veniva offerto a schiavi e lavoratori.
Insomma per dirla alla romana “De gustibus”. Ma c’è un altro aspetto del vino, importante oggi come allora, che vogliamo ricordare: il fatto che fosse un simbolo di convivialità. Cioè, se fino alla fine della repubblica il vino si beveva senza far troppo caso al sapore , i Romani svilupparono col tempo un palato sopraffino e cominciarono a concepire il vino come un piacere da condividere, durante i banchetti ma non solo. Allora se amate la convivialità e se siete degli intenditori alla ricerca dell’ “etichetta” rara salutiamoci con le parole di Petronio (Satyricon , 34) e Prosit!!!
«In quell’istante portarono anfore di vetro accuratamente ingessate. Sul collo c’erano etichette (pittacia) con questa scritta : “Falerno del consolato di Opimio. Più di cento anni.” […] il vino dunque vive più di noi? Allora trinchiamocelo tutto. Il vino è vita.»
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